Effetto Placebo: una pietra d’inciampo per lo scientismo?

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effetto placebo
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C’era una volta una comunità scientifica che somigliava più a un vero villaggio che a un ‘villaggio globale’: i cultori di un campo di ricerca si conoscevano più o meno tutti tra loro e potevano rimanere informati sulle ultime novità leggendo i pochi articoli scientifici rilevanti che venivano via via pubblicati.


A Enrico Fermi o a Max Perutz non sarebbe mai passato per la mente di spulciare il New York Times per avere contezza dei ‘problemi interessanti’ della fisica nucleare o della biochimica strutturale.
Con l’aumento esponenziale del numero di addetti alla ricerca e la conseguente impossibilità di tenere sotto controllo la letteratura potenzialmente rilevante, la cosa non è più così peregrina.
Il punto è che, mentre il singolo scienziato ha perso prestigio passando da detentore di una maestria personale ad anonimo collaboratore di una impresa collettiva, la scienza intesa come entità impersonale ha occupato un ruolo del tutto sproporzionato come ‘decisore di ultima istanza’ in faccende anche molto lontane dal suo ambito vicariando religione, filosofia e politica.
Questo ruolo sproporzionato (insieme alla crescente fame di fondi per mantenere un numero molto elevato di addetti) ha sia diminuito gli spazi di libera investigazione (la stessa necessità di delimitare quello che un tempo era la motivazione principale delle scienza nella minuscola oasi protetta dei temi denominati ‘curiosity-driven’* ne è una prova schiacciante) che di fatto consegnato alla opinione pubblica (e quindi ai media) la possibilità di decidere ciò che è veramente degno di nota e ciò che non lo è.
Non è questo il luogo per discutere cause, motivazioni e conseguenze di questo stato di cose, ma questa introduzione è a mio parere necessaria per comprendere la rilevanza (e quindi l’interesse in termini sia epistemologici che politici) di un recente articolo a firma Gary Greenberg apparso sul New York Times dal titolo:
What if the Placebo Effect Isn’t a Trick?, più o meno ‘E se l’effetto Placebo non fosse un trucco?’.
Consultabile al sito:
https://www.nytimes.com/2018/11/07/magazine/placebo-effect-medicine.html

La scienza si arrende alle evidenze: come la realtà dell’effetto Placebo rimette in discussione alcune credenze scientifiche

L’articolo è godibilissimo e narra del venire alla luce di uno scandalo che macchiava l’onore della famiglia scientista tenuto segreto per anni e ora venuto alla luce (un po’ come una gravidanza troppo evidente per essere contrabbandata come ‘un certo appesantimento’).
Greenberg ci narra di un convegno tenuto a Leiden, in Olanda, che ha raccolto 300 membri della ‘Society for Interdisciplinary Placebo Studies’ che, dopo venticinque anni di studi hanno finalmente le ‘prove scientifiche definitive’ che il notissimo effetto Placebo (anche una pillola di zucchero se contrabbandata per un farmaco può indurre la guarigione o comunque un arretramento dei sintomi) non è una illusione ma un ‘fatto reale’. Questa promozione dell’effetto Placebo dal torbido mondo dell’esoterismo alla limpida luce della scienza deriva da studi biochimici e di risonanza magnetica funzionale che, individuando alcune correlazioni tra trattamento con Placebo e modificazioni organiche misurabili rendono finalmente rispettabile il fenomeno.
Tornando alla nostra analogia, è come se la scapestrata figlia in dolce attesa avesse sposato il padre del bambino riportando onore e rispettabilità in famiglia.
Greenberg riporta il disincantato (e assolutamente condivisibile) commento di Ted Kaptchuck dell’ Università di Harvard, uno dei massimi esperti in materia
‘What makes our research believable to doctors? It’s the molecules. They love that stuff.”
Insomma, senza potersi riferire ad almeno uno straccio di interpretazione molecolare/meccanicistica, decenni di sperimentazione clinica a ‘doppio cieco’ congegnata proprio per tener conto del potente effetto Placebo (dove cioè nè il paziente nè il medico sanno se stanno assumendo (somministrando) una pillola di zucchero o un farmaco), questo rimaneva ‘un trucco’, un vizio assurdo da tenere celato.

 

Le prove chiave dell’efficacia dell’effetto Placebo

Fermiamoci a riflettere su questo stato di cose fissando alcuni punti chiave:
1. Abbiamo prove schiaccianti dell’effetto curativo della suggestione, talmente schiaccianti che, a partire dal 1962 la FDA (Food and Drug Administration) ha reso obbligatoria la procedura a ‘doppio-cieco’ per l’approvazione dei farmaci per l’uso clinico.
2. Sono svariati anni che il gruppo guidato da Fabrizio Benedetti ha dimostrato che i farmaci avevano differenti effetti se accompagnati da un’ aspettativa di guarigione oppure no, ossia la base del Placebo. Questi esperimenti oltretutto hanno dato gli stessi risultati in molti contesti diversi.
3. La rilevanza dell’effetto Placebo è costantemente aumentata (almeno negli Stati Uniti) nel corso degli ultimi anni: uno studio comparativo pubblicato dalla rivista Pain nel 2015 ha mostrato come il ‘vantaggio medio’ del farmaco rispetto al Placebo in termini di efficacia sul dolore da neuropatia è passato dal 27% del 1990 al 9% del 20132. Tutto ciò è coerente con il fatto che si è arrivati a circa il 90% di studi clinici sui farmaci antidolorifici che non riescono a superare la prova del ‘doppio cieco’. Questo ha portato a un grande interesse delle case farmaceutiche per la ricerca di un marker genetico che possa individuare i soggetti più sensibili all’effetto Placebo per eliminarli a priori dagli studi clinici e così migliorare le speranze (ormai molto scarse) di arrivare a brevettare nuovi antidolorifici.

In termini elementari di metodo scientifico (e di semplici considerazioni probabilistiche), i tre punti elencati sopra ci permettono di affermare che la realtà del fenomeno (e quindi il suo interesse scientifico, visto che fino a prova contraria la scienza si interessa dei fatti) è molto meglio supportata da una massa sterminata di prove ottenute sui pazienti (punto 1) che da poche evidenze di laboratorio.
A questo proposito è utile citare il bellissimo lavoro di John Ioannidis che dimostra la molto maggiore verosimiglianza degli studi clinici ben condotti rispetto alle evidenze di laboratorio(3).
Il punto 2 è piuttosto intricato: qui abbiamo una ‘entità’ dallo statuto ontologico misterioso (una idea? un fantasma? una illusione?) che modifica (ed è modificata) da entità materiali (farmaci) e che induce effetti misurabili in termini di metabolismo e di trasmissione elettrica del segnale nel cervello. Se un ente X interagisce con la materia, vuol dire X è a sua volta un ente materiale o che comunque provoca una risposta attraverso la mediazione di altri enti materiali (che è poi la stessa cosa).Ci torneremo.
Il punto 3 ci trasporta in una dimensione apparentemente ancora più inquietante: la misteriosa entità Placebo sembra avere addirittura una dimensione sociale, in trenta anni triplica la sua potenza a livello di popolazione. Lo spirito del tempo (lo zeitgeist per usare un termine caro ai filosofi) accrescendo la fede del popolo nella potenza della scienza accresce l’effetto dell’illusione che diventa (in maniera misurabile) via via maggiore. La spiegazione più semplice (in realtà non è il Placebo ad essere più potente, sono i nuovi farmaci ad essere meno efficaci dei vecchi) anche se molto attraente, non è sostenibile in quanto nelle prime fasi di sperimentazione di un nuovo farmaco, esso è confrontato con l’attività di farmaci già esistenti sul mercato e solo quelle molecole che mostrano (in assenza di effetto Placebo in quanto sperimentati su cellule o animali) un rilevante ‘vantaggio’ sull’esistente arrivano ai trial clinici.

 

Perché lo scientismo non si vuole arrendere alle evidenze del Placebo

La ricerca affannosa di un segno tangibile (e.g. un gene) che possa depotenziare l’effetto Placebo eliminando dalla sperimentazione gli ‘indemoniati’, corrisponde a un vero e proprio esorcismo nei confronti della misteriosa entità da parte della religione scientista.

A vederla in maniera disincantata , potremmo limitarci a compiacerci della verifica sperimentale delle posizioni filosofiche di Aristotele (e San Tommaso con lui) riguardo al sinolo, cioè alla sostanziale inestricabilità tra corpo e anima in questa vita. Scendendo sulla terra, salta agli occhi il fatto che abbiamo ormai senza alcun dubbio imboccato una diversa direzione di progresso rispetto agli ultimi 250 anni, con gli ‘scienziati’ a fare SIA la parte dei superstiziosi invocando un gene che spieghi loro cosa accade o almeno una immagine di risonanza magnetica cerebrale (comunque raggiunta) invece di tentare di sistematizzare i fenomeni CHE la parte degli inquisitori che cercano di rendere il più possibile innocua la spiacevole presenza di un effetto che disturba le loro credenze.

 

Perché un intero sistema rischia di crollare

Ma di che credenze si tratta ? Quale è il sistema che rischia di crollare?
Dalla scoperta da parte di Faraday e dalla successiva sistematizzazione da parte di Maxwell del concetto di ‘campo’, sono più di 150 anni che la fisica ha acquisito un atteggiamento aperto sul concetto di causa materiale. Il campo è una caratteristica ‘collettiva’ di una zona dello spazio che si modifica nel tempo e assume diversi valori nello spazio, che è influenzata e influenza gli ‘oggetti sensibili’ (e.g. una carica elettrica) posti al suo interno e che emerge dalle interazioni reciproche fra diverse sorgenti. Non è poi così importante sapere se il campo sia un oggetto fisico o una proprietà emergente, la realtà è che il nostro cellulare funziona su una certa banda del campo, che anche se la nostra stanza ci appare vuota, basta che accendiamo il televisore e il campo elettromagnetico presente si appalesa in un flusso di immagini e suoni.
Non così in biomedicina, dove un pensiero magico di agenti materiali che si possono ‘toccare e pesare’ come tanti gnomi intelligenti si occupano instancabilmente di mandare avanti il mondo. Allora noi stiamo male se il nostro corrispondente gnomo-gene è mutato, siamo più o meno intelligenti a seconda del numero e dello stato di forma di una schiera di geni, e chiaramente un farmaco funziona perché sollecita il giusto gnomo-ricettore a sbrigare bene il suo lavoro.
Tutto ciò è abbastanza demente e se questa visione è apparsa andar bene per qualche decennio è solo perché davamo una interpretazione errata a ciò che in realtà accadeva (e.g. il farmaco si legava a un nodo terminale di una rete complessa di interazioni, che funge da ‘collo di bottiglia’ per il passaggio dalla scala microscopica alla scala macroscopica). Ma le bugie hanno le gambe corte e la diminuzione drammatica del numero di nuovi farmaci immessi sul mercato a partire dagli anni ottanta non accenna concludersi nonostante la propaganda sulla nostra crescente capacità di comprendere e controllare la natura.
L’effetto Placebo promette di essere un’altra pietra di inciampo per uno scientismo ottuso e sempre più timoroso di ‘mettere la testa fuori dal guscio’.

 

Quando la scienza perde di vista il suo senso

Ma davvero, cosa si teme ? Probabilmente quella di cui si ha paura è proprio la realtà, il primo unico e grande amore della vera scienza che è stato tradito per una sorta di partita a scacchi con se stessi. La scienza si è impigrita su una sistematizzazione che si è considerata definitiva ed è diventata sempre più simile a una teologia senza amore, perfetta come instrumentum regni proprio perché apparentemente coerente e conseguente (è inutile che discutiamo di politica, questa è scienza amico mio, c’è poco da fare) ma del tutto incapace di rimettersi in discussione dalle fondamenta.
Il punto è che, se non si recupera in fretta la voglia di ripartire dai fondamenti, invece di affidarsi all’esoterismo dei Big Data e altre fumisterie, lì fuori è pronta e affila le armi un’orda di fanatici che, esattamente con le stesse movenze e atteggiamenti apodittici delle scienze ‘ufficiali’, ci propone cure basate su filosofie orientali mal comprese, su ipotetici ‘centri energetici’ o ‘biodinamici’ scimmiottando la sicurezza e la pretesa di spiegazione ultima e definitiva dei paladini dello scientismo.
Le crepe nel muro della cittadella si stanno pericolosamente allargando….

Fonti:
– 1 Amanzio, M., & Benedetti, F. (1999). Neuropharmacological dissection of placebo analgesia: expectation-activated opioid systems versus conditioning-activated specific subsystems. Journal of Neuroscience, 19(1), 484-494.)
2 Tuttle, A. H., Tohyama, S., Ramsay, T., Kimmelman, J., Schweinhardt, P., Bennett, G. J., & Mogil, J. S. (2015). Increasing placebo responses over time in US clinical trials of neuropathic pain. Pain, 156(12), 2616-2626.
3 Ioannidis, J. P. (2005). Why most published research findings are false. PLoS medicine, 2(8), e124.
*Letteralmente ‘Ricerca motivata dalla curiosità’ e quindi dalla voglia di conoscere la natura, in domini in cui le applicazioni pratiche non sono immediatamente apparenti. E’ interessante notare che nei paesi anglosassoni un sinonimo è ‘Blue Skies Research’ con un implicito rimando a uno scienziato sognatore e fuori dal mondo in opposizione al ‘mondo reale’ (vedi https://en.wikipedia.org/wiki/Blue_skies_research). Noi sappiamo che la natura è molto reale e quindi opporre la ricerca motivata dalla curiosità al ‘mondo reale’ implica un drammatico stravolgimento del senso di reale (da res, latino per ‘cosa’) a ‘economicamente rilevante’.
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Alessandro Giuliani

Nato a Roma nel 1959, è sposato e padre di due figlie. E’ Primo Ricercatore presso l’Istituto Superiore di Sanità dove si occupa di modellistica statistica e matematica dei sistemi biologici. Ha sviluppato insieme a Joe Zbilut e Chuck Webber dell’Università di Chicago, la tecnica non lineare di analisi del segnale ‘RQA’ (Recurrence Quantification Analysis). Tiene spesso corsi di metodologia statistica in Università Italiane ed Estere, è autore di più di 300 pubblicazioni su riviste internazionali ‘peer-review’ e di qualche libro di divulgazione scientifica.