Van Gogh si ritrae più volte con l’orecchio amputato un anno prima della sua tragica morte. L’artista soffrì di una rara malattia ereditaria: la porfiria acuta intermittente.
Occhi inquieti, persi nel vuoto, nel caos di innumerevoli pensieri.
Vincent Van Gogh realizzò una quarantina di autoritratti che indagano lo scorrere del tempo, ma anche l’inesorabile progredire della sua malattia.
La sua non fu solo una ricerca pittorica, ma anche “verbale”, dimostrata dalle circa 400 prolisse lettere scritte al fratello Theo.
La pennellata dell’artista è testimonianza dell’irrequietudine e del disagio che lo caratterizza e con il tempo si fa sempre più larga, vorticosa, rapida, tenebrosa.
Qui si ritrae con l’orecchio amputato, coperto da una benda; proprio quel famoso orecchio che si recise in seguito ad una litigata con il coinquilino Gauguin e che poi donò ad una prostituta.
Il corpo è coperto da un pesante cappotto, la testa da un vistoso cappello, abbigliamento probabilmente suggerito dal medico che lo aveva in cura.
Sullo sfondo una delle stampe giapponesi che l’artista collezionava e amava, rappresentante alcune geishe e il monte Fuji; questa stampa si ricollega alla figura dell’amico Gauguin, con cui Van Gogh aveva in progetto di fondare nel sud della Francia un gruppo di artisti ispirati alla cultura e al rigore giapponese.
Le crisi di Van Gogh si manifestavano soprattutto con allucinazioni e crisi di tipo epilettico sfocianti in uno stato di profonda depressione e confusione mentale conducendolo al suicidio a soli 37 anni di età.
I colori iniziano a farsi cupi, spenti, come buia è la sua vita caratterizzata da diffidenza e alienazione ma che fu assai prolifica: realizzò circa 800 opere durante la sua breve carriera.
L’arte probabilmente fu l’unico sfogo, l’unico raggio di sole nella solitudine della sua vita.
Mira Carboni
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