Eutanasia: la situazione normativa in Italia

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Il caso del dj Fabo, un uomo rimasto tetraplegico e cieco a seguito di un incidente stradale avvenuto nel 2014, il quale, dopo un accorato appello al Presidente della Repubblica ed al Parlamento affinché venisse finalmente discussa la regolamentazione del cosiddetto “fine vita”, ha scelto di recarsi in Svizzera al fine di vedersi riconosciuto il diritto di porre volontariamente fine alla propria vita, ha riportato all’attenzione dei media e dell’opinione pubblica il tema dell’eutanasia.

Per eutanasia (dal greco eu – bene, e thanatos – morte, dunque traducibile in dolce morte) si intende comunemente il procurare la morte ad un individuo, la cui qualità della vita sia stata gravemente e permanentemente compromessa a seguito di una malattia o di una menomazione fisica o psichica.

L’eutanasia può essere attiva (laddove vengano somministrati farmaci aventi l’effetto di provocare la morte) o passiva (laddove venga interrotto un trattamento medico).

Entrambe le suddette fattispecie possono a loro volta suddividersi in due sottocategorie: volontaria ossia consensuale (quando è il soggetto stesso che chiede ed ottiene di porre fine alla propria vita), involontaria ossia non consensuale (quando è un soggetto terzo a chiedere ed ottenere per un altro individuo il decesso di quest’ultimo).

In Italia non esiste al momento una regolamentazione del cosiddetto “fine vita” e l’eutanasia è di fatto assimilata all’omicidio.

In particolare l’eutanasia attiva è considerata omicidio volontario e, pertanto, è punita ai sensi dell’art. 575 c.p. (“chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”). Anche nel caso di eutanasia passiva può essere configurato il reato di omicidio volontario, e ciò ai sensi dell’art. 40 c.p. (che equipara il non impedire l’evento al cagionarlo volontariamente); in tal ipotesi, tuttavia, il reato viene in essere solo ove sussista a carico del responsabile un esplicito dovere giuridico di impedire l’evento morte; inoltre, l’orientamento prevalente considera punibile la sola eutanasia passiva non consensuale.

All’interno della fattispecie dell’eutanasia attiva, qualora sia stato manifestato il consenso del deceduto viene configurata l’ipotesi di omicidio del consenziente, punita ai sensi dell’art. 579 c.p. (“chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni”).
Anche il suicidio assistito è ritenuto reato ed è punito ai sensi dell’art. 580 c.p. (“chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”).
Quanto all’eutanasia passiva consensuale, invece, essa può ritenersi lecita. La diversa valutazione giuridica rispetto alle predette ipotesi, considerate illecite e perciò punite, trae origine dalla disposizione costituzionale di cui all’art. 32, 2° comma (“nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge”). Da tale principio costituzionale, infatti, si deduce che la scelta di sottoporsi o meno alle cure è un diritto di libertà della persona, per cui non è possibile praticare una cura contro la volontà espressa del paziente, anche quando l’omissione della cura o la sua sospensione porti alla morte.

Se dunque il malato esercita il suo diritto di non curarsi, il medico ha l’obbligo di sospendere le cure e l’eventuale persistenza dell’attività medica viene condannata come accanimento terapeutico. Bisogna però precisare che la Costituzione non garantisce il diritto di morire, ma il più limitato diritto di non curarsi.