Il bambino piange per una botta, la mamma gli da un bacio proprio li dove si è fatto male e il bambino “miracolosamente” sta bene, il dolore sparisce.
Fin dalla tenera età è una caratteristica umana quella di essere “soggetti rispondenti” all’effetto placebo. Caratteristica tipica umana, non condivisa con gli animali.
Spesso sentiamo parlare di placebo quando si tende a “smitizzare” una certa cura, come quelle omeopatiche: “funzionano perché è effetto placebo” viene detto, e si chiude il caso.
Spesso però ci si dimentica di farsi una domanda cruciale “perché e come il placebo funziona?”.
Domanda che da molti anni ormai si sta facendo il prof. Fabrizio Benedetti, professore di fisiologia e neuroscienze presso l’Università di Torino, e che oggi è giunto alla conclusione che “Le parole sono delle potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello e questi bersagli sono gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica”. Le sue ricerche e le sue scoperte sono state raccontate nel recente libro “La Speranza è un Farmaco” (leggi qui la recensione).
Abbiamo raccolto alcune domande di voi lettori ed ecco le risposte in esclusiva per Saluteuropa del prof. Benedetti:
1) La narrazione mediatica di una malattia può incidere sull’esito delle cure in alcuni pazienti? Un giornale che, dando notizia della morte di cancro di un VIP, usa parole come “morto di un male incurabile” o “morto dopo aver lottato contro un brutto male” può contribuire ad indebolire la “speranza collettiva” di guarigione dalla malattia?
Qualsiasi situazione induca aspettative, positive o negative, è potenzialmente capace di modificare il decorso di una malattia e la percezione dei suoi sintomi. Infatti, la componente psicologica, dove il paziente crede e spera, gioca un ruolo fondamentale in molte condizioni, primo fra tutti il dolore.
2) Andrebbe integrato, e se si come, il percorso di studio e preparazione di un medico alla luce delle nuove conoscenze sui meccanismi dell’effetto placebo?
È già in atto un cambiamento in questo senso. Sia in Italia che in tutto il mondo, l’effetto placebo e la sua componente negativa, l’effetto nocebo, vengono insegnati nelle scuole di medicina, nei corsi di psicologia e più in generale in tutte le professioni sanitarie. Si tratta, in altre parole, di enfatizzare il ruolo di diversi fattori psicologici nella malattia e nella risposta alla terapia.
3) Pazienti informati tramite il web: può il semplice informarsi su internet su qualche sintomo che si prova trasformarsi o in un boomerang negativo o in una positiva risorsa di cura? Come vede il crescente fenomeno del “paziente fai da te”?
È un pò quanto detto al punto 1. Informarsi su internet crea aspettative, sia positive che negative, quindi ha un potenziale impatto sulla malattia e la risposta alle terapie.
4) “Una terapia somministrata di nascosto funzionava meno, o non funzionava affatto.” (pag. 38 de “La Speranza è un Farmaco”). Certi farmaci vengono approvati per la messa in commercio seppur con lievi differenze statistiche di efficacia rispetto al placebo. Secondo Lei andrebbe in qualche modo rivista la progettazione degli studi clinici?
I disegni dei trial clinici non sono più soddisfacenti per valutare l’efficacia di nuove terapie. Oggi c’è l’esigenza di creare nuovi disegni sperimentali, e ciò è proprio dimostrato dalle terapie somministrate di nascosto. Per esempio, un farmaco somministrato di nascosto può essere del tutto inefficace, il che dimostra quanto la componente psicologica (aspettarsi un beneficio) sia importante. Nei trial clinici moderni si tende sempre più a misurare le aspettative del paziente.
5) Il rapido sviluppo tecnologico sta portando all’evoluzione del rapporto medico-paziente, mediato da esami diagnostici e strumenti tecnologici. Si parla sempre più spesso di ospedale 4.0, telemedicina, etc.. potrà tutto questo impattare in qualche modo sulla risposta “placebo” dei pazienti? Ci sono meccanismi resilienti tali per cui nasceranno nuove forme di “attivazione del placebo”?
La mia opinione è che l’interazione umana resterà sempre un punto cardine nei processi di cura. L’evoluzione tecnologica è importante, ma la relazione terapeuta-paziente è cruciale.
6) Cosa si sa del meccanismo di attivazione recettoriale indotto da placebo? Nel Suo libro ci descrive le osservazioni sulla via biochimica della morfina, della dopamina, della Ciclossigenasi.. si tratta di attivazioni a valle o a monte? Per spiegarci meglio, si attivano i recettori in assenza di mediatore biochimico, o si attiva la secrezione di molecole che poi agiscono sul recettore? Si è capito cosa induce questo meccanismo?
I diversi fattori psicologici presenti durante la relazione medico-paziente (aspettative, fiducia, speranza) attivano molecole nel cervello che si legano agli stessi recettori a cui si legano i farmaci. Per esempio, l’aspettativa di riduzione del dolore attiva nel cervello delle sostanze simili all’oppio, le quali si legano agli stessi recettori della morfina.
7) Da diversi anni il fisico Roger Penrose nei suoi libri teorizza la necessità di integrare i modelli neurobiologici con i modelli della fisica quantistica per lo studio dei processi cognitivi. Pensa che questa strada sia una suggestione fantascientifica o che possa essere una valida via di comprensione anche dei processi dell’effetto placebo?
Direi che siamo ben lontani da una comprensione di questo tipo. Per ora è meglio evitare di fare associazioni fra processi cognitivi e fisica quantistica.
8) Placebo e piacere: quali connessioni? Il godersi un profumo, una musica, un sapore… attivano vie simili al placebo?
Uno dei meccanismi del placebo è l’attivazione dei centri del piacere e dei meccanismi di ricompensa, così come fanno le ricompense naturali, quali cibo e sesso, e le ricompense culturali, quali il denaro. In fin dei conti, una terapia, che sia vera o che sia finta, è una potentissima ricompensa. Quale ricompensa maggiore di un miglioramento clinico per un paziente che soffre?
9) Attivare il placebo in un bambino o in un adulto, ci sono differenze di resa? Su chi funziona meglio?
Nei bambini ne sappiamo molto poco. Ci sono problemi etici insormontabili nell’effettuare studi di questo tipo nei bambini. Possiamo però dire che i fattori psicologici sono cruciali nel bambino.
10) Pensa che anche nel percorso di educazione di un bambino si possano introdurre accorgimenti per favorire l’induzione del placebo?
È un pò quanto risposto nel punto precedente.
11) Susan Sontag nel suo libro “La Malattia Come Metafora” ha cercato di affrancare il concetto di malattia dal senso di colpa: la malattia avviene a prescindere dalle dinamiche umane/psicologiche del paziente. Tuttavia leggendo il Suo libro “La Speranza è un Farmaco” verrebbe da pensare che così come la speranza possa indurre positivi effetti sul processo di guarigione altrettanto atteggiamenti psicologici negativi potrebbero favorire l’insorgenza di certe patologie. È corretta questa interpretazione o si rischia di fare cattiva informazione?
È corretta in parte. Le parole possono curare, ma le parole possono anche far male e uccidere. Tuttavia, è difficile pensare che ciò valga per qualsiasi situazione: con le parole non si uccidono i batteri, non si induce anestesia generale e non si previene una gravidanza. Le parole funzionano laddove la componente psicologica è cruciale, per esempio il dolore, la performance motoria, l’ansia, la depressione.
12) Quanto incide l’effetto placebo nella performance sportiva? E il ruolo della forza di volontà ha la stessa natura del placebo? Come si possono integrare questi suoi studi nel percorso di allenamento e gara di sportivi professionisti?
I fattori psicologici sono cruciali nelle competizioni sportive, quindi il placebo ha qui un ruolo importantissimo. Oggi c’è il dibattito se il placebo possa essere considerato una forma di doping. Una risposta chiara non c’è, e il dibattito è oggi abbastanza acceso.
13) Quali sono i prossimi obiettivi della Sua ricerca? Quale l’impatto che spera di poter determinare nella pratica clinica?
Oggi lavoriamo molto con l’ossigeno, al fine di capire se l’ossigeno placebo (finto) può essere considerato alla stessa stregua di un farmaco placebo. L’ossigeno è cruciale per la vita e governa molte funzioni vitali critiche, quali la ventilazione. Ebbene, oggi sappiamo che ossigeno finto, ma che i soggetti credono sia vero, può indurre risposte fisiologiche simili a quelle dell’ossigeno vero. Ovviamente ci sono dei limiti, e la sfida è oggi capire quali sono questi limiti.
Redazione
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